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Don Niccolò, l'esperienza di una testimonianza

Don Niccolò Ceccolini, l'esperienza del Carcere minorile di Roma

L’ultimo incontro pubblico che abbiamo fatto prima del lockdown è stato proprio con don Nicolò, era il giugno 2019. Non so se è responsabilità sua se poi è successo tutto quel che è successo… comunque c’è questa coincidenza nel ripartire, adesso, insieme a lui. Mi fa molto piacere: chi più di don Nicolò ha vissuto esattamente le stesse problematiche che abbiamo vissuto noi nel vivere il nostro gesto di caritativa presso le carceri? È stato sicuramente un periodo in cui abbiamo cercato in tutti i modi di tenere accesa la fiammella del desiderio di ritornare o meglio di continuare a fare quello che più ci interessa nell’opera di carità che svolgiamo all’interno delle carceri. E abbiamo tante testimonianze in questo periodo di come l’impossibilità di entrare fisicamente nei penitenziari ha aperto la fantasia, ha suscitato l’esigenza di trovare un altro modo, un’altra maniera per esserci comunque. Sono nate tante iniziative, tanti rapporti nuovi, e questa è una grazia: mai avremmo pensato a marzo 2020 quando si è chiuso tutto che potessero nascere delle occasioni interessanti. Adesso chiediamo a don Nicolò, che ringraziamo perché ai nostri inviti risponde sempre positivamente, di aiutarci a reimpostare il gesto della caritativa, la modalità di entrare in carcere con uno sguardo e un cuore che non dimentica questo periodo di difficoltà ma si mette in posizione nuova. Grazie.

Don Nicolò: è bello poterci rivedere così tanti! Grazie dell’invito, che mi dà l’occasione di ritrovare diversi
amici. Come prima cosa vorrei dirvi questo, anche se sicuramente ci sarà tra voi qualcuno che non è mai
entrato al carcere: siamo molto fortunati ad avere questa opportunità! Io mi trovo ad essere cappellano del carcere minorile da quattro anni, però è da dieci anni che ho iniziato questa esperienza, che è cominciata come caritativa, quando ero ancora seminarista, e devo dire che è una cosa bellissima: in questi anni credo veramente che sia la cosa più bella e preziosa che mi sia capitata.
E a proposito del sì di cui parlava Fabio prima: prima di cominciare la caritativa al carcere io me ne stavo
tranquillo in una parrocchia in centro a Roma vicino al Colosseo retta da Sergio, il fratello del vostro Mauro, con i bambini, e quando venne il superiore del seminario a dirmi che avevano pensato per me una nuova caritativa, e che mi avrebbero mandato al carcere… inizialmente uno rimane un po’ spiazzato, perché non sai a che cosa stai andando incontro. Però io sono sempre stato abituato a dire di sì, con la certezza che in fondo, quando uno dice di sì, ci guadagna sempre, soprattutto quando sa dall’altra parte chi è che gli fa quella proposta. Perciò da quel momento per me è iniziata quest’avventura fantastica. Anche il vostro essere qui oggi, il sì pronunciato da ognuno di voi, è carico di questa promessa a prescindere dalle modalità con cui vive il gesto della caritativa in carcere: entrare, non entrare, non è importante. Importante è il sì.
Perché ho trovato così ricco questo mondo del carcere, che veramente, per chi non è mai entrato, è proprio un altro mondo, un mondo dentro al mondo (oltre a tutti i cancelli che devi attraversare, tutte le mura, per cui per raggiungere un ragazzo ti devono aprire cinque – sei cancelli, devi aspettare, non sei tu a dettare i tempi, non sei tu a dettare le modalità, ti devi adeguare a un altro modo di fare)… perché è un mondo così ricco? Userei questa immagine: in questi anni il carcere è stato una palestra di umanità, un luogo che ti allena ad allargare la tua umanità: che la mia umanità diventi più grande per accogliere l’umanità dell’altro. Ed è una umanità ferita, dolorante, quella con cui ci incontriamo, in particolare quella dei ragazzi.
I ragazzi che incontro a Casal del Marmo hanno compiuto reato da minorenni, ma possono rimanere fino al compimento dei venticinque anni: abbiamo ragazzi dai quattordici ai venticinque anni, sia maschi che
femmine. La maggior parte a Roma sono stranieri, anche se adesso la proporzione tende a equipararsi.
L’incontro con loro è stato innanzitutto quello con un grande bisogno: il bisogno non solo di avere cose, ma di avere qualcuno che gli si affiancasse in quel pezzo di strada. Ed è stato proprio uno di loro, che mi insegnano sempre tante cose, a capire qual è il vero bisogno che questi ragazzi si portano nel cuore. Durante il primo lockdown a me è sempre stato possibile entrare. Andavo, senza volontari, con personale interno ridotto all’osso, con le attività sospese… la domenica celebravo la messa solo con i ragazzi. Allora ogni tanto portavo qualche articolo da leggere, anche perché loro dentro non si rendevano tanto conto di che cosa succedeva fuori, tranne per le immagini che vedevano alla televisione. Gli ho proposto un articolo che affrontava il tema della paura della morte (di fronte al contagio, di fronte al numero dei morti che cresceva ogni giorno), e a un certo un punto uno di loro ha detto: “Ma sai, noi in fondo non abbiamo mica paura della morte! Perché noi la morte la sfidiamo: usciamo il venerdì sera, il sabato sera dalle discoteche anche strafatti e ci fiondiamo in macchina sul Raccordo a folle velocità. Non è la morte che ci fa paura. Piuttosto, noi abbiamo paura della vita. Di rimanere soli davanti alla vita”. Ecco qual è la paura più grande che i ragazzi si portano dentro, che in fondo poi è la paura di ognuno rimanere soli. Allora il cammino con loro consiste nel cercare di instaurare una relazione positiva, seminare nel loro cuore la possibilità che una mano possa gettare una fune in quel buco pauroso della solitudine. Come a dire: c’è qualcuno che ti può essere vicino, che ti può accompagnare per un pezzo di strada, che si può almeno affiancare a te, con cui puoi confrontarti sulle cose della vita.
Penso che l’immagine che descriva più di ogni altra la situazione in cui ci troviamo, anche voi volontari, ad
entrare in carcere è l’inoltrarsi in un deserto. Queste persone sono lì perché si sono trovate sole, senza punti di riferimento, senza affetti, privati anche di un significato per la vita e, anche, con le loro scelte hanno creato attorno a sé terra bruciata (perché voler bene, continuare a voler bene ad una persona che fa di tutto per non volersene non è facile: anche le famiglie sono provate da queste situazioni. Tante mamme fanno tanta tenerezza: alcune a volte hanno come avuto una “esplosione” in casa, una cosa che non si aspettavano, che non avevano messo in conto). Il deserto. Essere disponibili ad entrare in questo deserto, in questa solitudine che in carcere a volte è anche proprio fisica: tante volte mi capita di entrare nelle celle dei ragazzi, sedermi lì insieme a loro, e in quel momento entri nel loro mondo… hanno le foto appese, ti fanno leggere alcune lettere, ascolti le canzoni che loro sentono. Comunque, entri. Entri nella loro vita, diventi parte del loro universo.
Perché per me questa è una ricchezza, è un motivo di crescita? Perché l’incontro con questo loro mondo, con il mondo della sofferenza, della solitudine, del bisogno, mi richiede un impegno maggiore a vivere seriamente la mia vocazione. Mi costringe a vivere seriamente la vita di tutti i giorni. Tante volte dico ai ragazzi: “Io non avrei coraggio di venire qua da voi se fuori da qui facessi cose che non corrispondessero a quello che vi dico.
Le cose che vengo a dire a voi sono le cose che io cerco di vivere tutti i giorni”. Questo è perciò un grande
aiuto per me per vivere seriamente la vita, per vivere io personalmente la mia chiamata, la mia vocazione: so che prima di incontrare loro devo prepararmi. Ai seminaristi che vengono con me al carcere, e ai volontari, dico sempre che occorre prepararsi, che non ci si improvvisa, che occorre preparare il proprio cuore all’incontro con queste persone, con questi ragazzi: sono già fragili, incasinati, se noi andiamo da loro come se andassimo a fare una passeggiata, andiamo a creare più problemi. Non sono soprammobili che noi spostiamo da una parte all’altra, ma sono persone, sono ragazzi in crescita
In questi anni ho scoperto che il carcere è un po’ come una lente di ingrandimento sulla propria vita: se uno ha dei vuoti, dei buchi, delle cose irrisolte, lì dentro questi aspetti personali esplodono. Perciò bisogna fare un cammino, aiutarsi insieme per crescere, aiutarsi davanti alle difficoltà, ai problemi che nascono. Occorre partire da un “pieno” per andare a incontrare i nostri amici che stanno in carcere. Non si va in carcere per riempire un vuoto che abbiamo noi, altrimenti diventeremmo schiavi dei ricatti affettivi, delle richieste più assurde… Partire da un pieno: significa anche pregare prima di entrare, chiedere allo Spirito di accompagnarci, di suggerirci Lui i tempi, le modalità, le parole, i silenzi (è importante anche il silenzio: non avere la preoccupazione di metterci dentro parole nostre).
In quest’ultimo periodo, proprio sotto il lockdown, ho riscoperto un amico, di cui ho avuto anche la grazia di ricevere una reliquia in dono, che ho portato al carcere: padre Pino Puglisi. Immagino lo conosciate, questo sacerdote palermitano che gli ultimi tre anni della sua vita (dal ’90 al ’93) è tornato nel quartiere Brancaccio, dove era nato, ed è stato poi ucciso dalla mafia.
Oggi volevo leggervi alcuni brani, in cui lui parla della formazione dei volontari alla luce di quello che ha
vissuto con i ragazzi di strada. Li ho trovati molto utili. Che il carcere ci aiuta a prendere sul serio la nostra
vita, padre Puglisi afferma: Abbiamo bisogno di persone coscienti (si riferiva ai volontari in questo caso) che la vita ha un senso perché ha una vocazione (cioè per ognuno di noi la vita è una chiamata a un compito, a una missione). Abbiamo bisogno cioè di persone consapevoli di essere chiamate da Dio nella comunità in cui vivono per rendere ciascuna un servizio singolare, unico, irripetibile, indispensabile, complementare a quello degli altri, per dar vita a vere comunità che vivano la comunione nella varietà dei carismi e dei ministeri, dei talenti e dei servizi.
Per questo siamo un gruppo, anche in carcere non entriamo individualmente, singolarmente, ma entriamo
come gruppo: proprio perché siamo chiamati insieme a vivere quel servizio, ad aiutarci.
In questi anni che ho passato al carcere ho trovato tre parole che stasera vorrei offrirvi brevemente, anche
come piste di lavoro che io sto cercando di percorrere e che mi sembrano importanti.
La prima la “rubo” dal vostro nome: presenza. Secondo me è la parola fondamentale, forse ne avevamo
parlato anche l’altra volta. Infatti, la prima cosa che mi disse padre Gaetano, che era stato cappellano prima di me per trentasei anni – da cui ho imparato il mio stare lì, cercando di fare mio il suo segreto
nell’approcciarsi ai ragazzi, nell’incontrarli, nell’incoraggiarli, nell’aiutarli concretamente – fu: “Non sono i
discorsi che costruiscono; è il tuo essere, il fatto che tu ci sei, che quotidianamente i ragazzi ti vedono, a far sì che tu per loro nel tempo diventi un punto di riferimento”, e allora è possibile fare un cammino. Perché la cosa più difficile, e voi lo sapete bene, è conquistarsi la fiducia di persone, di ragazzi, che sono già feriti abbondantemente dalla vita. Soprattutto per i ragazzi che sono stati già abbondantemente usati dagli adulti, che hanno fatto loro promesse che poi nessuno ha mantenuto o perlomeno che li hanno usati per altri scopi: è questa presenza che dà la possibilità che si crei una fiducia. In fondo il carcere è proprio il luogo dove non è importante il fare (poi se riusciamo anche a fare… tanto meglio), ma è il luogo dove si impara ad essere: a essere persone, a essere persone intere, a dare sé stessi. Etty Hillesum nel suo Diario nel campo di concentramento ha proprio questa frase: Il mio fare qui dentro è essere. Essere, con la mia storia, con le mie ferite, con i miei doni: sono qui.
L’altra parola del vostro nome è incontro: l’incontro fra due libertà che può avvenire dentro al carcere.
Credere che il quel momento lì, in quei dieci minuti, cinque minuti che ho, anche solo in una stretta di mano o nell’incrociare uno sguardo, può avvenire qualcosa di grande. Non siamo noi a misurare, ma può avvenire qualcosa di grande perché il Signore può fare cose grandi. Perciò la seconda parola che vi offro è condividere.
La condivisione della vita. Il punto più importante è imparare a incontrare l’altro. Ricordo una frase, riportata in un testo di Jean Vanier, di un ragazzo disabile che Vanier aveva accolto in una delle comunità da lui fondate, che a un certo punto si rivolge a lui e gli dice: “Tu hai avuto sempre la preoccupazione di cambiarmi, ma mai il desiderio di incontrarmi”. Non volere bene all’altro perché cambi, perché sia come ho in mente io; invece, desiderare di incontrare l’altro veramente: che poi significa fare spazio all’altro, alla storia dell’altro, mettersi al servizio dell’altro, ad ascoltare l’altro. Condividere con quello che si è la vita dell’altro. Che significa anche condividere i momenti della vita: ad esempio io al carcere passo tanto tempo, anche durante le feste. Cerco sempre di evitare di fare altre cose per poter condividere con loro anche i momenti del Natale, della Pasqua, dell’estate, anche i momenti più difficili: cerco di esserci per stare lì con loro. Non entrare, dire le mie quattro belle cose e poi… arrivederci e grazie, tanto io poi torno a casa. Invece, chiedere al Signore di imparare a condividere anche quel dolore, quella sofferenza, quelle gioie, quei momenti belli. Ritorno sull’immagine dell’entrare nella cella: lì accetti quello che ti offrono (la Coca Cola, il panino…); condividi quei momenti di vita.
E poi, ultima parola: la testimonianza. Noi entriamo con quello che siamo, certo, ma per portare qualcosa,
perché abbiamo qualcosa da testimoniare. Che cosa ha tenuto accesa la fiammella di cui parlava Fabio
all’inizio? Il fatto che noi abbiamo incontrato una cosa troppo bella nella vita, che è un peccato tenerla solo per noi. Quante cose belle abbiamo avuto noi! Mi viene sempre in mente quella frase del Vangelo:
“Gratuitamente hai ricevuto, gratuitamente ridona, condividi!”. La cosa più importante che ho scoperto in
questi anni è il dare testimonianza con la propria vita di quello in cui si crede. Questo dà credibilità: uno cerca di vivere (poi nessuno è perfetto…), comunque uno vive quello che dice. Per me significa testimoniare ai ragazzi, non tanto con le parole ma con il mio stare con loro lì, che non c’è solo la violenza, non c’è solo la sopraffazione, non c’è solo il potere, ma esistono anche altre dimensioni come l’amicizia, la condivisione, il volersi bene, l’aiutarsi.
Quindi noi entriamo in carcere con una missione, con un compito. E potremmo dire così: la nostra presenza è una contro-proposta a ciò che il mondo propone, a quello che i nostri amici che sono in carcere hanno visto, hanno vissuto, e magari ancora pensano che sia la proposta più favolosa della vita. E anche a questo proposito volevo leggervi un brano di padre Puglisi, dove lui esprime proprio questo desiderio per i ragazzi che incontrava: Dobbiamo riuscire a far capire ai bambini (lui parlava di bambini perché diceva: gli adulti lasciamoli perdere perché sono già “andati”. La sua scelta è stata ricominciare dai piccoli. Però ognuno di noi può fare il parallelo con le persone che ha presenti)… dobbiamo riuscire a far capire ai bambini perché esistono, per che cosa vivono, ma senza fare discorsi filosofici. Il bambino di quelle famiglie capirà i gesti che si faranno: il gioco, la convivenza, intesi come modelli di comportamento. Ad esempio, nel gioco si deve fare loro vedere che ci sono delle regole da seguire, che non è giusto barare. Nell’ambiente mafioso chi bara ha più consenso, perché esprime doti particolari come la furbizia… Diventa una contro-proposta anche per loro, uno stile di vita. Per loro lo scopo della vita è guadagnare, a qualsiasi costo. Un volontario, o una suora, che vanno lì, nelle loro case, con senso di solidarietà, di gratuità, di amore cristiano, rappresentano una controproposta che potrà avere un’efficacia in seguito.
Mi piace molto questa espressione: il nostro impegno non ha la pretesa di cambiare le situazioni, la vita, da un momento all’altro, ma vuole essere un segno che è una contro-proposta. Un seme gettato dentro la vita dei nostri amici di qualcosa che loro probabilmente non conoscono, che non hanno mai visto prima. Allora, come dice padre Puglisi, è necessario entrare dentro una nuova visione del tempo: che il tempo non è in mano nostra, che noi seminiamo ma è un Altro che fa crescere, è un Altro che accende le luci. Don Bosco diceva che “l’educazione è questione del cuore”: si deve muovere qualcosa dentro, ma non siamo noi a smuovere quel qualcosa. Noi possiamo agire esteriormente, lavorare per creare delle condizioni, dire cose positive, far fare esperienze belle, positive, ma chi muove i cuori dentro è un Altro: è lo Spirito Santo. È Dio che educa, che cambia i cuori.
Da padre Puglisi ho imparato che la gioia vera è il frutto di una scelta radicale. E che l’amore non è un
sentimento, ma è una decisione. Bisogna decidere per amare, perché non è facile, soprattutto con le persone che noi incontriamo. Che l’amore è una decisione per me significa: da una parte, mettere in conto di essere usato, accettare di essere usato. Il ragazzo che mi dice: ho bisogno di… ho bisogno di una penna: sicuramente in cella ne avrà cinque di penne, però la vuole da me, perché cerca un rapporto. Allora io ho sempre usato (o cercato di usare, perché non è sempre facile tenere il “timone” della barca) , ho sempre cercato di vivere l’espressione di un bisogno, una richiesta, come via di condivisione più profonda per arrivare alle cose più importanti.
Mi ricordo di un ragazzo, che era arrivato in carcere con suo fratello che faceva il piccolo boss della palazzina: era sempre un po’ strafottente, per cui non eravamo mai entrati in contatto. A un certo punto lui voleva scrivere a un suo amico che si trovava in un altro carcere, ma non aveva l’indirizzo. Allora io gli dissi: “Se vuoi, te lo procuro io”, e gli portai l’indirizzo. Da quel giorno lì… un altro! Come tante volte portare il francobollo: cos’è un francobollo per noi? Una cavolata! Eppure lì dentro diventa la strada per arrivare ai cuori.
Accettare poi il fatto che voler bene apparentemente sembra del tutto inutile, accettare – potremmo dire – questa inutilità dell’amore. Forse quando ci siamo visti l’altra volta vi ho già raccontato di un ragazzo che usò lui, per la prima volta, questa parola: “spreco”. Questo ragazzo era entrato in un altro carcere minorile perché il suo reato fu un fatto talmente efferato che andò su tutti i giornali… e la cosa mi impressionò molto. Avendo in mente i ragazzi che incontro quotidianamente, mi sentii di scrivergli una lettera come segno di vicinanza.
Poi passò un anno di silenzio. A un certo punto tornò al carcere di Roma un altro ragazzo che già conoscevo e che era suo compagno di cella. E lui mi disse: “Ma tu hai scritto a… (chiamiamolo) Marco?”. Io, vi giuro, non mi ricordavo più di avergli scritto un anno prima! “Ah, sì sì, gli ho scritto. Ma un anno fa, figurati.” E lui:
“Guarda che ti arriverà la lettera, perché ti ha risposto”. E infatti mi arriva la lettera da quel ragazzo. Da
questo momento in poi per sei – sette mesi siamo andati avanti col rapporto epistolare. Ci siamo conosciuti in questo modo. Dopo il suo appello ho avuto la possibilità di andarlo a incontrare per la prima volta. Nel dialogo che abbiamo avuto a un certo punto… forse non è stata la prima volta, perché ho preso ad andarlo a trovare frequentemente; quindi, quando c’era ormai un po’ di familiarità fra noi gli ho chiesto: “Toglimi una curiosità. Ma come mai tu hai risposto alla lettera, primo: di uno sconosciuto e secondo: dopo un anno di
tempo? Avresti potuto benissimo prendere la lettera e dire: ma questo chi è?? E strapparla e buttarla via.” E lui mi ha detto: “Io l’ho tenuta lì perché, innanzi tutto, avevo bisogno che le cose sedimentassero, e poi
perché avevo capito che lì c’era qualcosa di vero. Quindi mi sono detto: a questa lettera devo rispondere. Poi ti ho scritto perché tu mi hai pensato, ti sei seduto e hai sprecato tempo per me”. Quel ragazzo mi ha fatto capire che la misura più vera dell’amore è questo spreco. Che in fondo è come ama Dio: quanto tempo spreca Dio perché io possa capire qualcosa? È la gratuità: amare senza misura, senza aspettarsi il tornaconto. Per questo io penso che noi siamo dei privilegiati, a poter andare a vivere quello che viviamo con i nostri amici al carcere. Perché lì veramente tante volte il tornaconto non ce l’hai: tante volte non ricevi neanche un grazie.
Imparare ad amare così.
E concludo con questa frase di padre Puglisi che secondo me raccoglie e descrive il cuore del servizio che tutti noi desideriamo vivere: Amore senza speranza di ritorno, senza reciprocità. Un amore che non deve aspettarsi qualcosa in cambio ma deve donare con umiltà, condividere in libertà, servire gratuitamente.
Questa frase è un po’ un manifesto. Me la sono stampata e nell’ufficio ce l’ho sempre lì; prima di uscire la
rileggo. Esprime bene lo spirito a cui cerchiamo di aiutarci.

Associazione Incontro e Presenza
13 Novembre 2021

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