Il lavoro nelle carceri: il carcere è molto distante dalle tematiche più dibattute in quanto siamo soliti allontanare – fisicamente e con il pensiero – il mondo della detenzione, forse in quanto la riteniamo una dimensione che non ci riguardi, che sia il male che noi stessi non rappresentiamo. Qualunque riflessione attorno all’istituto carcerario, eccezion fatta per le periodiche richieste di maggiore durezza della pena, rappresenta nell’opinione pubblica un argomento di scarso interesse che, per di più, sul piano politico non aumenta il consenso.
Tale approccio è ancora più evidente in questo periodo di emergenza sanitaria: all’interno delle strutture si è ancora molto lontani da un ritorno alla normalità (nuova o vecchia che sia) e le istanze provenienti da questo mondo sono ritenute, quando va bene, di secondo piano. Eppure il carcere – caratterizzato visivamente da strutture obsolete o, se recenti, lontane dai centri abitati – è una realtà che coinvolge tutti in quanto, piaccia o meno, può colpire chiunque e, come una sorta di specchio, restituisce l’immagine della società che vogliamo creare.
La struttura detentiva non è un luogo impermeabile e isolato dalla società libera (almeno così è stato fino all’arrivo del Covid-19) e comprendere come sanzionare e recuperare chi ha sbagliato non delinea una questione di mera giustizia, ma definisce la capacità della collettività di gestirsi e crescere: il carcere, per definizione, è il luogo di esecuzione della pena e interrogarsi sulle sue modalità e finalità è il presupposto per costruire una società funzionante e, non da ultimo, più sicura.
A tale riguardo non si può che partire dall’art. 27, comma 3, della carta costituzionale, che introducendo i principi di umanizzazione della pena e di rieducazione del condannato, ricorda che l’esecuzione della pena non può essere attuata con modalità tali da costituire un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà.
In altre parole la limitazione della libertà personale – esperienza vissuta anche dal resto della popolazione durante il periodo di lockdown – non travolge gli altri diritti costituzionalmente riconosciuti alla persona, perché chi si trova in stato di detenzione, sebbene privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale.
Se, pertanto, il carcere è un luogo dell’ordinamento costituzionale ne consegue che, anche al suo interno, accedono i principi cardine della Costituzione.
Innanzitutto gli artt. 1 e 3, laddove viene affermato che il lavoro fonda la Repubblica, ispirandola e caratterizzandola, ed esprime l’indirizzo che deve condizionare l’azione dei pubblici poteri, i quali – secondo quanto prescritto dall’art. 3, secondo comma – devono porre in essere politiche atte a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
È in questa prospettiva che si muove il c.d. ordinamento penitenziario, ovvero l’apparato normativo che regolamenta gli istituti di reclusione, disciplinato dalla legge 26 luglio 1975, n. 354.
L’art. 15 o.p., infatti, individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato è assicurata un’occupazione lavorativa.
Il successivo art. 20 pone le basi per lo sviluppo di questa nuova concezione del lavoro nelle carceri, stabilendo che non ha carattere afflittivo, ma strumento finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato, e prevedendo la sua remunerazione, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi (cfr. art. 22 cit.).
Organizzazione e metodo devono riflettere «quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale» (art. 20, comma 3), e nell’assegnazione al lavoro deve tenersi conto, oltre che dei carichi familiari, dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e delle abilità lavorative possedute (art. 20, comma 5, lett. a).
La durata della prestazione lavorativa non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti, e sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale (art. 20, comma 13). Inoltre possono essere svolte, per conto proprio, attività artigianali, intellettuali o artistiche (art. 20, comma 11).
Le competenze lavorative del detenuto sono, dunque, un elemento da prendere in considerazione, ma è l’amministrazione penitenziaria, attraverso un’apposita commissione (art. 20, comma 4), a farsi carico dell’assegnazione (art. 20, comma 5, lett. a). Il ruolo centrale dell’amministrazione è determinata dal fatto che il detenuto può essere chiamato a svolgere la prestazione lavorativa all’interno o all’esterno dell’istituto, e tale scelta incide chiaramente sull’esecuzione della pena.
Nello specifico il lavoro intramurario è la modalità tradizionale di svolgimento dell’attività lavorativa, e il detenuto può avere come datore di lavoro tanto l’amministrazione penitenziaria quanto imprese pubbliche o private, mentre il lavoro all’esterno, a cui tutti i detenuti possono essere assegnati, prevedendo l’art.21 o.p. che soltanto i responsabili dei reati più gravi possano accedervi a seguito dell’espiazione di almeno un terzo della pena (e, comunque, di non oltre cinque anni, mentre per i condannati all’ergastolo l’assegnazione può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni), rappresenta lo strumento più idoneo a riconoscere un contenuto concreto al 3° comma dell’art.27.
Intramuraria o extramuraria può essere anche la partecipazione a corsi di formazione professionale (art. 20, comma 1, e 21, comma 4-bis, o.p.), la cui possibilità conferma la centralità del lavoro, durante l’espiazione della pena, ai fini del reinserimento sociale.
In tale contesto si inserisce la Legge 22 giugno 2000, n.193, con i successivi decreti attuativi, che prevede vantaggi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti.
Nello specifico, a quasi cinque anni dall’emanazione del Dm 148/2014, che modificava la misura del beneficio contributivo introdotto dalla Legge Smuraglia, con la circolare n. 27 del 15/02/19, l’INPS ha emanato le istruzioni per la fruizione dei benefici contributivi spettanti alle cooperative sociali e alle aziende che assumono persone detenute o internate.
Per poter ottenere gli sgravi fiscali le assunzioni devono riguardare (i) internati e detenuti all’interno di istituti penitenziari, (ii) ex pazienti di ospedali psichiatrici (anche di carattere giudiziario), (iii) condannati e internati che siano ammessi alle misure alternative la detenzione (semilibertà) o al lavoro esterno ai sensi dell’art. 21 o.p.
Il lavoro nelle carceri. I datori di lavoro che possono richiedere all’Inps le agevolazioni sono:
A) le cooperative sociali di cui alla legge n. 381/1991, che assumono persone detenute e internate negli istituti penitenziari, o persone condannate e internate ammesse al lavoro esterno, nonché ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari (art. 4, comma 3-bis, della legge n. 381/1991);
B) le aziende pubbliche e private che, organizzando attività di produzione o di servizio all’interno degli istituti penitenziari, impiegano persone detenute e internate (art. 2 della legge n. 193/2000).
Inoltre va precisato che per i lavoratori occupati in attività svolte al di fuori dell’istituto solo le cooperative sociali possono fruire dei benefici, mentre all’interno del carcere qualunque datore di lavoro pubblico e privato – comprese le cooperative sociali interessate – possono accedere ai benefici
previa stipula di un’apposita convenzione con l’amministrazione penitenziaria.
Le agevolazioni fiscali sono riconosciute solamente se i soggetti sono assunti con contratto subordinato, sia esso a tempo determinato, indeterminato o part-time, e sono compresi anche i rapporti di apprendistato, di lavoro intermittente e le assunzioni realizzate al fine di somministrazione, mentre sono esclusi i rapporti di lavoro domestico.
Nello specifico è previsto uno sgravio parziale – nella misura del 95% – dei contributi Inps e Inail a carico della ditta e del dipendente, che diventa totale nel caso di cooperative sociali che reinseriscono persone svantaggiate.
In aggiunta è riconosciuto un credito d’imposta nei seguenti termini:
È quasi superfluo evidenziare che tali sussidi rappresentano un significativo risparmio per il datore di lavoro e un investimento sociale per la comunità.
Peraltro proprio il periodo appena trascorso, e le difficoltà che dovremo affrontare, ci hanno fatto scoprire nuovamente la fondamentale importanza del lavoro, che non è soltanto un diritto ma anche, in una prospettiva solidaristica, un dovere, che rende l’uomo partecipe dello sviluppo della comunità rappresentando un mezzo (forse il più significativo) per l’affermazione della personalità di ciascun cittadino.
Diventa, quindi, indispensabile che anche in ambito penitenziario il lavoro goda di tutte le protezioni riconosciute dalla Costituzione, sia perché si tratta di lavoro, sia perché adempie ad un’altissima finalità sociale e civile, ovvero quanto indicata l’art.27, comma 3, della carta costituzionale.
In conclusione se portare il lavoro nelle carceri è complesso, società e sistema carcerario, anche per favorire un significativo abbattimento della recidiva, non possono che imboccare una strada, ossia aprire le porte e concedere ai detenuti di lavorare quanto più possibile all’esterno.
Avv. Lorenzo Falappi. Articolo apparso sul numero di luglio 2020 di “Sintesi”, la rivista dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano.